Rede Unida, 10º Congresso Internacional da Rede Unida


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Antropologia e medicina: quale contributo per il miglioramento della salute della popolazione
Ivo Quaranta

Resumo


Il contributo presenta una valutazione preliminare di due esperienze di inserimento della prospettiva antropologica negli spazi di cura in riferimento ai bisogni di salute di un’utenza straniera. I due progetti di cui si parlerà sono il “Laboratorio dei diritti” (Parma) e il “Centro di Consultazione Culturale” (Provincia di Bologna), entrambi nati da una collaborazione fra Istituzioni Socio-Sanitarie della Regione Emilia Romagna e l’Università (di Parma e di Bologna, rispettivamente). L’obiettivo comune ai due progetti è stato quello di soddisfare i bisogni tanto degli operatori quanto dei pazienti. La prima constatazione emersa chiaramente dai progetti è come le difficoltà relative al trattamento dei pazienti stranieri vedono sullo stesso fronte questi ultimi e operatori, illuminando la natura sistemica del problema. È in questo senso che al di là del focus specifico sulla salute dei pazienti stranieri sono emerse problematiche la cui rilevanza generale ci aiuta nel processo di ripensamento complessivo del sistema di cura e promozione della salute tout court. Senza entrare ora nelle differenze fra i due progetti, un tratto che è emerso come comune ai differenti contesti è stato quello della miope idea che attraverso la sola mediazione linguistico-culturale (che peraltro spesso si riduce a mera opera di interpretariato linguistico) si possa promuovere il miglior interesse di un’utenza straniera. Il limite di questo atteggiamento sta nel non problematizzare la natura culturale e dunque parziale della prospettiva biomedica stessa e di come attraverso le sue categorie e procedure essa letteralmente proietti coni d’ombra su molteplici dimensioni della salute e della malattia andando di fatto a minare il suo stesso potenziale di efficacia. In entrambi i progetti si è lavorato attraverso metodologie qualitative e multi-disciplinari volte a indagare le dimensioni culturali e socio-economiche della malattia al fine di ripensare non solo la relazione di cura ma lo stesso iter terapeutico. Nel caso del “Laboratorio dei diritti” si è trattato di realizzare focus groups e momenti di formazione con il personale ospedaliero, lavorando congiuntamente: antropologi, psicologi culturali, esperti di specifichi contesti culturali e giuristi. Il sodalizio fra prospettiva antropologica e giuridica ha rappresentato il tratto caratterizzante il Laboratorio, il cui fine è quello di far emergere la necessità di andare oltre il riduzionismo biomedico introducendo l’analisi antropologica dell’esperienza di malattia come momento protocollare della relazione medico-paziente. In questo modo si mette in luce come i profili di responsabilità medico-legale siano da ripensare laddove non si garantisca il miglior interesse del paziente, che è stato inteso principalmente nei termini del suo diritto al significato, ovvero del suo diritto alla partecipazione nel processo di produzione del significato della propria esperienza di malattia. In questo contesto si è lavorato principalmente sul fronte del ripensamento della relazione di cura attraverso metodologie volte a far emergere i significati dell’esperienza di sofferenza come terreno per il ripensamento del processo diagnostico e la conseguente definizione dell’iter terapeutico. In sede congressuale si approfondiranno i dettagli di questo lavoro. Nel caso del Centro di Consultazione si è lavorato a partire dall’attivazione della consultazione da parte dei servizi con difficoltà diagnostiche e/o terapeutiche relative a specifici pazienti. Dopo una prima consultazione con il servizio inviante per comprendere la natura dei loro bisogni, un’equipe multidisciplinare procede alla consultazione con il paziente attraverso diversi incontri in cui posso essere coinvolti anche altri soggetti socialmente significativi per la persona. Sulla base della consultazione si chiude la procedura restituendo al servizio inviante i risultati emersi per ripensare l’iter terapeutico. In questo dispositivo la ricerca, l’azione e la formazione procedono sinergicamente: sulla base della indagine qualitativa dell’esperienza di sofferenza si produce un ripensamento dell’azione del servizio attraverso un momento di formazione basato sugli esiti della consultazione. I risultati finora emersi dimostrano che l’ampliamento della prospettiva biomedica attraverso metodologie capaci di lavorare sui significati dell’esperienza di malattia e sul ripensamento della dimensione terapeutica hanno prodotto una maggiore soddisfazione tanto negli operatori quanto nei pazienti. Altro risultato significativo è stata la indiscutibile necessità di guardare alla malattia come la dimensione incorporata a livello individuale di più ampie dinamiche tanto sociali, quanto culturali e giuridico-politiche. In molti casi ad emergere come determinante a livello eziopatogenetico sono infatti state dinamiche di carattere socio-economico e giuridico, che appunto non sono intervenute solo nel limitare l’accesso ai servizi, ma anche nel produrre le condizioni per l’insorgenza dell’esperienza stessa di sofferenza. Attraverso il ripensamento della relazione di cura non si è cercato esclusivamente di lavorare sui significati dell’esperienza, ma anche di far emergere attraverso quali specifici meccanismi forze sociali di ampia portata sono intervenute nello strutturare quell’esperienza. In questo senso il lavoro sulla relazione ha permesso anche di lavorare sul contesto dei rapporti fra paziente e realtà sociale. In conclusione il contributo si soffermerà sulle specifiche dinamiche emerse nel corso dei due progetti per mettere in luce l’apporto che metodologie qualitative possono fornire nel rendere operativi due livelli di analisi: il significato dell’esperienza di sofferenza e disagio, da un lato, e le specifiche modalità attraverso cui le disuguaglianze socio-economiche incidono a livello eziopatogenetico, dall’altro. A tal fine saranno discusse criticamente alcune delle strategie solitamente adottate in ambito sanitario per affrontare il tema della salute dei migranti, preoccupandosi di fornire strumenti di lavoro adeguati a promuovere una trasformazione delle pratiche di cura, a partire proprio da una visione processuale e intersoggettiva del concetto di cultura che non cristallizzi l’esperienza personale in un qualche modello culturale di riferimento. Attraverso il lavoro svolto è emersa la possibilità di estendere i risultati ben oltre il rapporto con i pazienti stranieri: con loro infatti è emersa la necessità di lavorare esplicitamente su dinamiche che sono sempre determinanti negli spazi di cura e che generalmente avvengono in modo implicito in virtù di una forte condivisione dei presupposti culturali. Centrale in questo compito è il ripensamento del concetto di efficacia terapeutica, per mettere in luce le possibilità di concreta implementazione di strumenti multi-metodologici negli spazi di cura, raggiungendo il duplice obiettivo: di rispondere tanto alle difficoltà e ai bisogni degli operatori, quanto a quelli dell’utenza.